Che bisogno c’è di far passare tutti i cavi elettrici dentro il telaio, di stendere sette mani solo di trasparente per proteggere il metalflake, di assemblare cerchi con il doppio dei raggi intricati come ragnatele oppure di recuperare un basamento dato per spacciato, in giro per il mondo dal 1950? Il bisogno c’è, eccome. Certi lo chiamano custom e dal secondo dopoguerra significa costruirsi una moto a propria immagine e somiglianza, a misura dei sogni di ognuno. Il percorso comincia con un accessorio, un dettaglio diverso e la velleità di distinguersi. Due ruote è bello, custom è molto meglio. Può soddisfare un pizzico di umanissima vanità ma anche cambiare la visione della vita, diventando stile di vita e cultura popolare. Quando si trova la propria strada in questa avventura nascono slanci e necessità che implicano orgoglio, esperienza e voglia di mettersi alla prova, per se stessi ma anche per conquistare l’attenzione di altri motociclisti affetti dalla medesima malattia. Lo capisce anche chi sa fare poco o niente; esalta quelli che con le mani fanno miracoli. Anche in questo campo chi fa da sé fa per due, anzi per tre. La necessità è madre di tutte le invenzioni e ci si ingegna per risolvere piccoli e grandi problemi in vista delle tanto sospirate vacanze in moto, di una semplice uscita tra gli amici oppure di un bike show. Si racimolano soldi, si sperimentano trovate e si barattano pezzi rari; con la fantasia si rivive il passato, magari ci si proietta nel futuro. Se poi c’è la passione, quella vera che non brucia in un attimo, un chopper può portare molto lontano. Non è necessario per viaggiare e vedere il mondo ma può farci scoprire molte cose di noi stessi.